Rocchetta tra leggende e storia
C’è una storia nascosta che aleggia nell’agro di Rocchetta Sant’Antonio, una storia fatta di streghe e lupnar… di scazzamuriedd e di leggende che spesso non si discostavano molto dalla realtà. Storicamente la civiltà contadina si basava molto sui racconti di paura per esorcizzare gli incubi di una vita fatta di molti, troppi sacrifici. quello che vi propongo è un percorso tra miti e storia. Un viaggio che si interseca con fatti realmente accaduti, frutto di un lungo lavoro di ricerca sul campo iniziato nel 2007 con lo studio antropologico diretto dal professore Aldo Colucciello.
L’area in questione è la zona dell’Annunziata che da un lato va verso l’Ofanto attraverso il Dragone e dall’altro si introduce nelle valli pigmentate dalle rocce grigie che arrivano a Preta Longa. Due corsi d’acqua, Ofanto e San Gennaro, che sono l’emblema del mistero. Difatti proprio lungo i corsi d’acqua si manifestavano presenze demoniache e leggende misteriose, ancor di più se il fiume in questione si chiama Aufidus, ossia ‘infido’,
Secondo i racconti in queste zone si radunavano le masciare, forse anche grazie alla presenza di diversi alberi di noce, che storicamente sono il simbolo della stregoneria. Dalle testimonianze orali trasmesse agli anziani del paese, queste zone furono nel corso dei secoli ‘bonificate’ dalle presenza delle streghe.
Partiamo dall’Ofanto. L’area è caratterizzata dalla dedizione alla Dea Venere. Qui vi era un altare con un piccolo tempio che proteggeva il villaggio e il porto fluviale, primo insediamento in epoca romana nell’agro di Rocchetta. Il culto della dea Venere è molto simile a quanto poi trasmesso ai posteri con i Sabba, queste feste esoteriche celebrate dalle streghe che si consumavano nei boschi proprio di venerdì, il giorno dedicato alla dea.
La stessa figura di Venere è molto simile alla descrizione delle streghe. Difatti Venere si distingue per il carattere capriccioso, vanitoso e volitivo; proprio come le masciare, pronte a far dispetti a chi mancava di rispetto. L’area in questione, vicina all’attuale stazione ferroviaria, è da sempre luogo di leggende misteriose, tanto obbligare i cristiani a convertire il luogo di culto alla Dea Venere con il nome Santa Venere, che non esiste nel calendario cristiano.Da qui anche il nome al ponte Romano, Santa Venere che per molti anni nell’800 ha dato il nome alla stazione ferroviaria lungo la tratta Avellino- Santa Venere. Nello stesso punto inoltre, a conferma della presenza demoniaca si èconsumato il miracolo di San Gerardo Maiella, quando, di ritorno da Melfi, proprio nel guado al confine tra Puglia e Basilicata, ordinò al demonio di aiutarlo a passare il fiume Ofanto impetuoso in una notte di burrasca invernale. «In nome della santissima Trinità ti ordino di guidare il cavallo dall’altra parte del fiumi», il demone chinato il capo e afferando la bardatura accompagnò il santo sulla sponda pugliese permettendogli di raggiungere sano e salvo la vicina Lacedonia. Inoltre lungo la via interpoderale che collegava il paese alla Stazione Ferroviaria, avvenivano fatti misteriosi e miracolosi. Questa via viene chiamata ancor oggi del Dragone. Si suppone che il toponimo è legato al cult di San Giorgio e del drago demoniaco da lui combattuto. In uno dei racconti raccolti durante il nostro studio, vi è quello di una famiglia del posto, ancora in possesso di un vecchio filmato dove un anziano signore racconta di esser stato miracolato da un male che lo aveva portato in fin di vita, grazie all’intervento di San Giorgio e San Gerardo che dopo un’apparizione lo hanno spinto ad alzarsi da quel letto di malattie e di morte per andare ad esorcizzare il male nel bosco che immerge la strada del Dragone a pochi chilometri dal ponte di Santa Venere.
Una catena fatta di pietra grigia collega la zona dell’Ofanto al monolite di Preta Longa, passando per Murgia Spaccata e l’area di Caca Riavule. Il suo nome (caca diavolo) nasce dalla leggenda legata al culto micaelico e alla lunga lotta tra l’Arcangelo e il Diavolo. Difatti secondo quando narrato dagli anziani, il diavolo mentre scappava dal Gargano per sfuggire alla spada di San Michele, trovò in questa amena vallata un luogo ideale per fare i suoi bisogni, che magicamente si trasformarono in roccia.
Ma quest’area del territorio ha anche una seconda connessione con l’esoterismo e il demonio. Difatti, il fiume che taglia in due il confine con la vicina Candela, è chiamato in gergo dialettale ‘Sagnennar’, tradotto nel tempo in San Gennaro. Una interpretazione che però si scontra con quanto raccontato dalle testimonianze orali che vedevano proprio in quei luoghi e sotto il ponte che guada ancora oggi il torrente, la presenza delle masciare, chiamate anche Janare. Come per Santa Venere, molto probabilmente anche il termine Janara che dava il nome al torrente dove si celebravano i riti esoterici è stato esorcizzato aggiungendo un ‘San’ a prefisso del nome. Difatti anche nel dialetto locale Gennaro non viene pronunciato con Jennar ma con Gennar e quindi fiume San Gennar e non Sangnennar. Sempre in questo fiume inoltre, trovavano ristoro i Lupnar e li Scazza Muriedd. I Lupnar erano semplici cittadini nati per loro sventura la notte di Natale (tra il 24 e il 25 dicembre) a mezzanotte. Questa circostanza trasformava la loro vita in un incubo in tutte le notti di luna piena cadenti nel martedì o venerdì. La trasformazione avveniva intorno alla mezzanotte e si trascinavano lungo le vie del paese alla ricerca di acquitrini e fango. Secondo la tradizione il loro aspetto demoniaco, che ricorda il mito del lupo mannaro, spaventava i cittadini a tal punto da provocare malore.
Diverso invece il mito dello ‘Scazzamuriedd’, molto diffuso nel meridione d’Italia. Un essere mitologico che infestava le abitazioni e rendeva difficile una serena dormita. Si presentava posizionandosi sulla pancia del dormiente fino a farlo soffocare. Unica vendetta era toglierli il cappello, un modo per tenerlo sotto scacco per estorcere fortuna e denaro. Il mito dello sczzamuriedd è molto simile a quello romano e ancor prima greco dell’Incubo. Difatti, col termine incubo (dal latino incubare, “giacere sopra”), nella tradizione romana veniva indicata una creatura malefica di aspetto maschile che giaceva sui dormienti, dandole un senso di soffocamento o congiungendosi carnalmente con essa. Tale creatura trova rispondenza in figure analoghe quali l’Efialte (᾽Εϕιάλτης) nella tradizione greca (il padre degli incubi era Fobetore, fratello di Morfeo), il Pahad Layla ebraico (“terrore della notte”) e più divinità demoniache mesopotamiche come il sumero Irdu Lili o Lilū, la cui controparte femminile è Ardat Lili o la più nota Lilith nonché l’accadico Kiel-lillal. Una versione femminile di questa creatura è chiamata succubo.